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News per Miccia corta15 - 03 - 2008 Moro, la crudele storia di quelle lettere
( Una contrattazione continua con i
brigatisti è evidente in tutti i messaggi inviati ai politici MIGUEL GOTOR Le
lettere dalla prigionia di Aldo Moro
(la cui riedizione ho curato per l'editore Einaudi) sono il prodotto di una
storia crudele e hanno avuto un percorso assai accidentato sino a diventare
l'esatta metafora della tormentata vicenda che testimoniano. Si tratta di 97
messaggi tra missive, biglietti e testamenti, ma soltanto una trentina di
lettere furono distribuite dai brigatisti nel corso del sequestro e appena otto
vennero pubblicate sugli organi di informazione e quindi concorsero a formare
l'immagine pubblica del prigioniero durante quei 55 giorni. Una ventina di
nuove missive furono ritrovate il 1º ottobre 1978 nel covo di via Monte Nevoso
in formato dattiloscritto e solamente dodici anni dopo, nello stesso
appartamento, vennero rinvenute dietro un pannello le rimanenti lettere, questa
volta in fotocopie di manoscritto. Siamo dunque davanti a un epistolario
composito, conosciuto in circostanze differenti di cui - a parte le lettere
effettivamente recapitate durante il sequestro - non sono mai stati ritrovati
gli originali. Nonostante
esistessero giá alcune edizioni, il primo obiettivo del mio lavoro è stato
quello di compiere un autonomo esercizio di trascrizione e di definire una
cronologia di stesura: gli originali manoscritti e i dattiloscritti conservati
presso l'archivio del Tribunale penale di Roma e le fotocopie di manoscritto
riprodotte dalla Commissione stragi. Ho
affrontato questi documenti come se fossero dei testi del Seicento, cercando di
applicare il massimo della freddezza emotiva e del calore intellettuale che
dovrebbero sempre caratterizzare il mestiere dello studioso di storia e con
l'intenzione di liberarli da un duplice paradosso che ha accompagnato la loro
complessa genesi e trasmissione nel corso del tempo. Il primo
paradosso riguarda la perniciosa influenza che il "caso Moro" ha
avuto su questi testi. Quanto piú esso ha finito per trasformarsi in un
fiorente e bulimico filone editoriale e cinematografico, tanto piú la parola
dell'uomo politico è rimasta sullo sfondo come se fosse sommersa dalla
logomachia di misteri e di antimisteri che hanno contraddistinto quell'annoso
dibattito. Il
secondo paradosso è costituito da una sorta di "dittatura della
testimonianza" che i carnefici di Moro hanno esercitato sulla sua persona
anche dopo la morte. ሠcome se i brigatisti, dopo essere stati sconfitti,
avessero continuato a tenerlo prigioniero attraverso un uso strumentale della
memoria, modulando rivelazioni, ricordi e reticenze, in base ai loro bisogni
giudiziari, politici, affettivi e identitari. Ho trovato questo spettacolo a
tratti indecoroso, soprattutto quel modo squilibrato e parziale
(dall'indulgenza che premia all'anatema che rimuove) con cui influenti settori
dell'opinione pubblica italiana hanno guardato all'esperienza delle Br e alla
stratificata storia del "partito armato" in Italia negli anni
Settanta, trascurando disinvoltamente il tema delle vittime. Attraverso
la trascrizione ho potuto concentrarmi soprattutto sulla materialitá della
scrittura e sulle modalitá di formazione del discorso del prigioniero. Non ho
soltanto scoperto nuove parole interpretando una serie di termini letti male o
non compresi dai primi esegeti, ma ho anche potuto constatare che alcune
lettere di Moro erano scritte alternando penne di diverso modello e colore da
un foglio all'altro. Un chiaro segno del fatto che molti di quei testi furono
compilati in tempi diversi e ricopiati da Moro sovente in modo meccanico, come
rivelano i numerosi inserti fra le righe compiuti dal prigioniero, che
aggiungeva in un secondo momento una parola saltata senza la quale la frase non
avrebbe avuto senso compiuto. Non meno
utile è stato il confronto, laddove possibile, fra diverse versioni di una
stessa missiva. A questo proposito è esemplare la lettera al senatore Paolo
Emilio Taviani del 10 aprile 1978: nella versione resa nota dalle Br il
prigioniero per ben due volte sosteneva in forma dubitativa, ma chiaramente
insinuante e polemica che la linea della fermezza fosse stata suggerita al
governo italiano da potenze straniere, in particolare dagli Stati Uniti e dalla
Germania. Una considerazione che allora suscitó notevole scalpore, ma che non
compare in una seconda versione della medesima lettera ritrovata dattiloscritta
nell'ottobre 1990 ed evidentemente tratta da un diverso manoscritto mai
ritrovato. Inoltre,
mettendo a confronto i dattiloscritti e i manoscritti conosciuti credo anche di
essere riuscito a spiegare la complessa modalitá di scrittura delle lettere
indirizzate agli uomini politici, parte integrante della strategia di
destabilizzazione del quadro politico e istituzionale messa in atto dai
terroristi: i dattiloscritti erano battuti a macchina giá nel corso del
sequestro a partire da un primo manoscritto di Moro e uscivano non firmati
dalla prigione per essere valutati dal comitato esecutivo delle Br; solo dopo
questa supervisione, venivano riconsegnati ai carcerieri affinché Moro potesse
ricopiarli. Questo
meccanismo di scrittura, che prevedeva l'instaurazione di un campo di
contrattazione continuo fra il prigioniero e i suoi custodi, fu applicato in
modo rigoroso nelle lettere indirizzate agli uomini politici, ma non venne
attuato nelle struggenti lettere di addio che Moro scrisse ai suoi familiari.
In questo caso le missive furono scritte in una condizione di maggiore libertá
espositiva perché i brigatisti sapevano sin dall'inizio che non le avrebbero
recapitate nonostante facessero credere a Moro che quei messaggi erano stati
sequestrati dalla polizia. Il fatto che il prigioniero per ben due volte nel
corso dei 55 giorni fu indotto dai suoi carcerieri a scrivere quelle lettere di
addio sotto la minaccia di una condanna a morte imminente, rivela come i
terroristi si servissero di questi espedienti emotivi, tipici di ogni sequestro
di persona a scopo estorsivo, per aumentare il loro dominio psicologico su Moro
e prostrarlo sempre di piú. Ad esempio, fecero credere a Moro che era stato il
ministro dell'Interno Francesco Cossiga a violare il patto di segretezza che
egli aveva richiesto nella prima lettera del 29 marzo Insieme
con le parole e le modalitá di formazione del discorso ho scoperto anche un
autore affascinante sul piano letterario, un uomo che vive una lucida agonia e
sceglie di testimoniarla, l'estrema risorsa che trova nella scrittura l'ultimo
baluardo. Quella parola disperata, in cui ogni termine è pertinente,
essenziale, levigato dall'attesa, dalla speranza, dall'angoscia, dall'odio,
dalla paura, dall'amore, racconta un uomo e dá senso a un'epoca con una
efficacia a tratti sorprendente ed emotivamente coinvolgente. Ripartire
dai documenti era necessario non solo per studiare la vicenda Moro, ma anche
perché queste lettere meritano di essere sottratte al silenzio e al
disinteresse che tuttora le circonda. Non si tratta solo di restituire dignitá
morale alla figura dell'uomo politico prigioniero, un risarcimento postumo che
si sforzi di interpretare anche le sue ragioni umane e politiche e di
recuperare il valore del messaggio civile elaborato nel corso di quei 55
giorni. Le
lettere che Moro scrisse dalla cosiddetta «prigione del popolo» nella primavera
del 1978 devono essere rese disponibili a chi desidera tornare con la memoria a
quei giorni, ma anche a quanti allora non erano ancora nati e oggi sono
cittadini curiosi di approfondire la storia del proprio paese e desiderano
confrontarsi con quei testi, con le domande ancora attuali che pongono a
proposito dei rapporti tra impegno civile e sentimento religioso, ragion di
Stato e diritti della persona, democrazia e violenza politica. Forse, le
lettere di Moro sono piú importanti oggi di allora.
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