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News per Miccia corta10 - 07 - 2007 Il lavoro sporco delle spie. Chi le usa contro i nemici politici(
Nella storia d'Italia le radici di un utilizzo distorto dell'intelligence
GIUSEPPE D'AVANZO
ሠun errore discutere di "servizi segreti deviati" o di "deviazione dei servizi segreti" come di un canone interpretativo di lungo periodo della storia repubblicana. E' vero, il paradigma è popolare fino all'abuso e torna sempre buono per eccitare l'emotivitá pubblica. Lascia, peró, le cose come stanno impedendo di comprendere che cosa provoca, da sei decenni, i comportamenti che, ex-post, si definiscono storti, "deviati".
Storti, "deviati" rispetto a quale linea maestra, a quale "dirittura"? Per rispondere, è necessario fare una premessa e accennare esplicitamente a qualche condizione "originaria" sempre taciuta o dimenticata, ma non controversa.
La premessa è che l'Italia è stata ed è un Paese diviso. Ogni Paese ha le sue "fratture strutturali". Per profonditá e durata, le nostre (monarchici/repubblicani; laici/cattolici; fascisti/antifascisti; comunisti/anticomunisti) non hanno riscontro nel contesto occidentale al punto che ci siamo accorti di non avere nemmeno le parole adatte a rappresentarle. Divisione, contrasto, conflitto apparivano formule sfocate. Gli storici (Rusconi, Scoppola, Cafagna) sono stati costretti a inventarsi e codificare un neologismo, "divisivitá ", per esprimere «un'anomalia eccedente la normale diversitá e conflittualitá , fisiologica nei sistemi moderni a pluralismo politico». Fin dai primi passi della nostra democrazia, gli italiani hanno cosà avuto "appartenenze separate" piú che un'appartenenza comune. Le contrapposizioni ideologiche del secondo dopoguerra hanno finito per esasperare «il senso di reciproca opposizione fra le diverse appartenenze». La cristallizzazione di queste fratture ha avuto, naturalmente, degli effetti.
Il primo effetto è stato ed è ancora che l'Italia è un Paese senza alcun consapevole e condiviso "interesse nazionale". Senza un interesse nazionale, abbiamo ceduto quote di sovranitá agli Stati Uniti come oggi, con la dottrina del "vincolo esterno", all'Europa. Per dirla con la sintesi folgorante di Francesco Cossiga: «La nostra politica militare era quella della Nato; la nostra politica economica quella della Comunitá europea; la nostra politica ideologica era quella della Chiesa». Uno dei luoghi dove, in modo piú visibile e tragico, si è "scaricato" il nostro "meticciato" geopolitico è stato il lavoro dell'intelligence. Come diceva Markus Wolff, uno che se ne intendeva di spionaggio e spioni, «il valore di un servizio segreto è il valore dei propri committenti». Nel nostro caso, i "committenti", cioè il potere politico, non avevano alcunché da chiedere all'intelligence se non che fosse al servizio dell'"amico americano". L'anomalia la si rintraccia fin dall'atto di nascita del nostro servizio segreto. Nessuna discussione parlamentare, nessuna legge partorisce il Sifar. Soltanto una circolare interna di Randolfo Pacciardi, allora ministro della Difesa, e soltanto dopo che le sinistre hanno lasciato il governo. Primo direttore è Giovanni Carlo Del Re. Agirá sotto la supervisione dell'uomo della Cia in Italia, Carmel Offie. I successori di Del Re, Umberto Broccoli ed Ettore Musco, saranno uomini al servizio della Cia. Si dedicheranno alla costruzione della rete anti-sovversione, anti-invasione, di Gladio. Dopo Broccoli e Musco, è la volta del generale Giovanni De Lorenzo, fortissimamente voluto in quel ruolo dall'ambasciatrice degli Usa a Roma, Claire Booth Luce. Con una tutela extranazionale – che, in autonomia e lontano da Roma, definiva la legittimitá di ogni sua iniziativa – la nostra intelligence cresce e prospera con un imprinting infetto.
L'infezione è nel metodo di lavoro, nella sua finalitá : il Paese non deve essere protetto, ma spaventato. A proteggere l'Italia ci penseranno E' una condizione che induce nel servizio segreto un nuovo, resistente morbo. Diventata la paura "idea politica", gli "spioni" comprendono con spregiudicatezza che "il terrore" lo si puó creare e alimentare anche senza stragi e bombe, ma soltanto annunciando stragi e bombe, consentendo cosà all'èlite di governo, che gliene sará grata, di ridisegnare i poteri, alleggerire i contrappesi, limitare i diritti. Nel contempo, le burocrazie della sicurezza si accorgono sotto quella spinta di poter ampliare senza limiti e danni il raggio d'azione; acconciare il proprio lavoro sugli interessi di chi è al potere; manipolare senza problemi i media e influenzare l'opinione pubblica. Fioriscono, nelle opportunitá offerte dalla "guerra al terrore", i compromessi, le obbedienze, i carrierismi, la volontá di potenza e il desiderio di minacciosa "autonomia" che l'affaire Pollari ci mette sotto gli occhi. Il progetto, oggi come all'alba della Repubblica, è aiutato ancora una volta dalla "divisivitá " del Paese, stretto nella radicalizzazione della lotta politica affrontata con le mosse e la retorica di un "scontro di civiltá " (ciascun polo si rappresenta come luogo esclusivo della democrazia).
Dove sono allora le "deviazioni"? Nell'assai ingloriosa storia della nostra intelligence si coglie soprattutto una "coerenza" del "lavoro sporco" – che gli è proprio – con il Potere, lungo una linea di frattura che biseca il Paese e separa una politica, incapace di riconoscersi legittimitá tra avversari; inadatta a indicare un interesse nazionale "obiettivo" elaborato con un alto tasso di "bipartisanship". Fin quando questo non avverrá , ci terremo le cosiddette "deviazioni" dei nostri servizi e il Pollari del momento.
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