(il manifesto, 3 gennaio 2007)
Storie «Il peggior pericolo, essere
rivoluzionari per professione»
Dopo mille battaglie, dieci anni di carcere e trentacinque
di esilio in vari continenti, Errico Malatesta venne murato vivo in casa sua, a
Roma, dal regime mussoliniano: che lo temeva mortalmente ma non poteva
accusarlo di nulla. Nessuno poteva avvicinarlo e nemmeno visitare la sua
tomba...
Ernesto Milanesi
Nel complesso di palazzine popolari, in Piazzale degli Eroi,
la targa ricorda ai romani l'ultima dimora del rivoluzionario senza dio né
patria né padroni. Errico Malatesta, anarchico per antonomasia.
Ormai vecchio e malato, è rinchiuso in casa, controllato a
vista dal regime, aiutato soltanto dagli amici riparati all'estero. Fa ancora
paura al fascismo, quando alle 12,20 di venerdà 22 luglio 1932 si spegne piano
piano, davanti agli occhi dell'impotente dottor Signorelli che lo ha in cura e
delle donne di casa. Il giorno dopo polizia e carabinieri presidiano un
funerale piú che privato: semplicemente inaccessibile. Fino al cimitero del
Verano, itinerario obbligato, nessuna deviazione ammessa, strade vietate ai
passanti. Tre carrozze di familiari scortate dal furgone della polizia, con
agenti in bicicletta ad evitare qualsiasi manifestazione. Vietati i garofani
rossi, resta la corona di rito. Impossibili le condoglianze. «Solo all'altezza
del Trionfale è sopraggiunto in motocarrozzetta ammonito politico Paolini
Duilio con altro individuo non ancora identificato, i quali salutata la salma
si sono subito allontanati», ammette il rapporto della questura inoltrato al
governo.
Errico Malatesta incarna l'anarchia in Italia. Ribelle,
bandito, sovversivo, trascinatore di folle, quando non era in galera oppure
esule nei due mondi. Dal regno dei Savoia fino al regime di Mussolini, ogni
potere se l'è sempre ritrovato davanti come simbolo della libertá di popolo.
Comincia a soli 19 anni, quando in compagnia di Carlo Cafiero attraversa il San
Gottardo coperto di neve. A Zurigo arriva con la febbre alta. E viene ospitato
da Bakunin, il suo mito, che provvede alle cure del caso ma lo dá per
spacciato. Invece Malatesta partecipa regolarmente al convegno anarchico di
Saint-Imier: ci ritornerá clandestinamente, nel 1922, per celebrare il mezzo
secolo dell'assise che segna la frattura dell'Internazionale.
Il primo dovere del proletario
Fin dall'inizio, dunque, Malatesta c'è. Con gli anarchici che
dalla Comune di Parigi vogliono mantenere lo spirito «movimentista». E' il piú
giovane delegato italiano al congresso che proclama: «La distruzione di ogni
potere politico è il primo dovere del proletariato». La libertá è come
l'ossigeno per lui, che rifiuta di essere un rivoluzionario di professione: «Il
pericolo piú grande che minaccia il movimento operaio e un po' anche il movimento
anarchico, è la tendenza dei leaders a considerare la propaganda e
l'organizzazione come un mestiere» (1913). Sará , puntuale, ogni volta sulle
barricate. Faccia espressiva, aspetto trasandato, capelli nero pece, oratore
formidabile con la pipa perennemente fra le mani, poliglotta, gran polemista
senza rinunciare al senso dell'umorismo, si accontenta dell'essenziale. Stanze
spartane con il bisogno di essere sommerso di libri, giornali e carte.
Malatesta è un vero ribelle che tuttavia rifugge come la peste
il ruolo assegnatogli a furor di popolo. Non è un bolscevico e, soprattutto, si
sente uguale agli altri compagni. Nei fatti, ad Ancona, anticipa quel che
accadrá durante la guerra di Spagna: l'Idea degli anarchici resta irriducibile
agli ordini di partito. Sará cosà fra gli operai che occupano le fabbriche e
nelle lotte antifasciste, come a Islington: «Viveva fra gli operai e, come noi,
aveva le mani incallite», ricorda un calzolaio socialista italiano, in esilio a
Londra.
Sempre sotto controllo
Pericoloso sovversivo sempre sotto controllo, eppure capace
di beffe clamorose ai danni dei questurini. Malatesta diventa una sorta di
icona dell'anarchia ma considera la leadership come il primo passo
dell'autoritarismo: «Esaltare un uomo è cosa politicamente pericolosa e
moralmente malsana».
Alla sbarra dei tribunali, piú che difendersi rivendica la
rivolta di popolo. In privato, passa mesi al capezzale di Emilia Defendi, la
cui famiglia l'aveva ospitato a Londra. Pubblicamente, si espone ai detrattori:
«L'essenziale è uccidere tutti i re nel cuore e nella mente della gente,
sradicare la fede nel principio di autoritá a cui presta culto tanta parte di
popolo». Errico Malatesta replica raramente nelle polemiche personalizzate.
Stile d'altri tempi.
Mario Missiroli, direttore del Resto del Carlino, lancia nel 1920 l'accusa di massoneria:
Malatesta «smentisce» a modo suo. Racconta come, dal 19 ottobre 1875 al marzo
1876, aveva sperimentato una «fratellanza» assai diversa da quella anarchica.
Benedetto Croce, invece, punterá l'indice contro di lui per
una presunta relazione con l'ex regina napoletana Maria Sofia, che aveva come
obiettivo quello di liberare Gaetano Bresci. Episodio che Croce (e poi anche
maldestramente l'Unitá ...) fa risalire al 1904, cioè tre anni dopo la morte
dell'attentatore che uccise Umberto I. «Ah, questi storici!», ironizza in un
sospiro Malatesta.
La sua è la storia di un anarchico che a 14 anni spedisce una
«lettera sovversiva» direttamente a Vittorio Emanuele II. O che a 21 anni
sperimenta l'indifferenza dei contadini pugliesi per l'avanguardia in armi.
Dieci anni dopo è di nuovo a Napoli, dov'è scoppiata l'epidemia di colera. A 40
anni intraprende un giro di conferenze in Spagna e si trova a Jerez de la Frontera: nel bel mezzo
di una rivolta spenta da un bagno di sangue.
Sempre sulle barricate di fine Ottocento. Nel marzo 1897
sbarca, clandestino, ad Ancona: è fra i protagonisti della rivolta del pane.
Finisce in carcere, poi cinque anni di domicilio coatto fra Ustica e Lampedusa
da dove fugge nel 1899 e, via Tunisi, ritorna a Londra.
Settimana rossa
A 60 anni, rientra in Italia. Nella «settimana rossa» è
ancora ad Ancona, insieme a Pietro Nenni. Ripara di nuovo a Londra. Con la
guerra, si consuma il divorzio da Kropotkin e la polemica con Mussolini.
Malatesta è antimilitarista, anche se si augura la sconfitta della Germania.
Nel 1919 l'ultima
vampata da rivoluzionario. Sceglie ancora l'Italia, dove arriva con un
piroscafo e viene accolto trionfalmente. Malatesta e D'Annunzio accendono le
loro micce, nelle fabbriche e a Fiume. L'anarchico rimane al fianco degli
operai, ma non vuol prendere il potere: «Resteremo sempre nemici di qualsiasi
governo, sia quello monarchico di oggi sia quello repubblicano o bolscevico di
domani». E il re si affiderá all'ex socialista Mussolini.
I fascisti chiudono il giornale degli anarchici e Malatesta
apre una bottega da elettricista meccanico, a San Giovanni in Laterano. A Roma
vive con la compagna Elena Melli e la figlia di lei, Gemma, che ha adottato.
Fino al novembre 1926 si dedica al quindicinale Pensiero e volontá , ultima rete
interna di resistenza anarchica.
Poi viene sepolto vivo, agli arresti domiciliari: «Abbiamo
alla porta sei guardie, notte e giorno. Quattro per me, uno per Elena e l'altro
per Gemma. Non mi toccano, ma mi rendono la vita insopportabile».
Dall'assassinio di Matteotti all'esecuzione di Sacco e Vanzetti, Malatesta è
sorvegliato «come una bestia pericolosa». E' vecchio, malato, isolato. Alla
fine, dipende da una bombola d'ossigeno. E fará paura anche da morto. Un paio
di sbirri monteranno la guardia perfino alla tomba (senza croce, con i garofani
rossi), identificando chiunque si avvicini. A Roma, in via Doria, poche parole
incise sul marmo ricordano ancora la storia di Malatesta: una vita anarchica
impossibile da seppellire.
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Biografia
Il
«Lenin italiano»
Errico Malatesta: Santa Maria Capua Vetere 4 dicembre
1853-Roma 22 luglio 1932, anarchico. Nell'immaginario dell'epoca si meritó
l'appellativo di Lenin italiano.
Figlio terzogenito di Federico (un commerciante napoletano di
cuoio) e di Lazzarina Rastoin. Lo mandano a studiare dai padri Scolopi; piú
tardi si iscrive alla Facoltá di Medicina. Arrestato per la prima volta a 17
anni, va in cerca di gloria nei monti del Matese ed è poi protagonista assoluto
durante la rivolta del pane di Ancona (1898). Processato in piú occasioni,
Malatesta trascorse in carcere oltre dieci anni. Costretto a imboccare la via
dell'esilio, per altri 35 anni giró il mondo in cerca di ospitalitá per sé e
per le sue idee: Egitto, Svizzera, Francia, Belgio, Spagna, Sud America,
Inghilterra. Malatesta attraversa, da anarchico, anche le lotte del primo
Novecento in Italia. Partecipa alla «settimana rossa», si oppone alla guerra,
difende l'internazionalismo anarchico. E' tra i fondatori del periodico
anarchico «Umanitá Nova» che dirigerá non solo dal punto di vista
giornalistico. Si oppone al fascismo, che una volta al potere lo costringeráÂ
prigioniero in casa, fino all'ultimo giorno.
Da vero anarchico, Malatesta non rinunció mai ad un lavoro.
Si guadagnó da vivere come meccanico, elettricista, perfino da cercatore d'oro
in Patagonia. Scrisse moltissimo, ma si rifiutó in piú occasioni di raccontare
in prima persona la sua storia politica. Cosà hanno rimediato due studiosi:
Piero Brunello, docente di Storia sociale all'Universitá di Venezia, e Pietro
Di Paola, dottorando a Londra. Insieme hanno curato «Autobiografia mai scritta.
Ricordi 1853-1932» (Edizioni Spartaco, pagine 268, euro 12,00) che restituisce
la straordinaria avventura di Malatesta con discorsi, lettere, ricordi,
deposizioni e interventi. E' invece opera di Giampietro Berti, storico
dell'Universitá di Padova, la monumentale monografia «Errico Malatesta e il
movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932» (Franco Angeli, pagine
813, euro 40,00). Un testo che documenta sessant'anni di storia personale e
politica, restituendo intatta la memoria di un protagonista tutt'altro che marginale.