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News per Miccia corta03 - 12 - 2009 Il tempo d'ogni cosa. Un racconto di Claudio D`Aguanno
Il corteo è un movimento d'onda e passa, acqua libera e sregolata, tra le strade di Roma. Il flusso dei partecipanti è incomprimibile e procede seguendo il disegno della cittá . S'allunga sul percorso che taglia il rione Monti giú dall'Esquilino. S'espande negli slarghi, torna a comprimersi nei passaggi stretti e, agli intoppi, c'è chi prende torrenti laterali infilandosi per
Non sorprende che la nostra classe politica non possa pensare l'amnistia,
non possa deporre i propri "cattivi ricordi"...
Essa è condannata al risentimento...
L'incapacitá di pensare che sembra oggi affliggere la classe politica italiana
e, con essa, l'intero paese, dipende anche dalla maligna congiunzione
di una cattiva dimenticanza e di una cattiva memoria...
(Giorgio Agamben – Cattive Memorie
da il Manifesto del 23 12 1997)
.. non ho piú le mani impure, sporche di sangue,
si sono deterse al contatto degli uomini
che mi hanno ospitato nelle loro case
o incontrato per strada, nella mia corsa
per la terra e per il mare, inseguendo
le profezie di salvezza del mio dio, e ora
sono qui, davanti alla tua chiesa, Atena...
(Eschilo – L'Orestiade
nella scrittura di Pier Paolo Pasolini)
Per ogni cosa c'è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole
....
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
(Qohelet 3,4)
Caro Claudio questa carcerazione è quanto di piú inutile e alienante uno possa immaginare. Niente a che vedere con l'altra. Sono circondato dai Tatuati Mutanti una sorta d'evoluzione di quelle creature del demonio che facevano ingarellare di brutto uno come Francone. Pensa che me lo sono rivisto in sonno giusto l'altra notte. Eravamo tutti e due nella rotonda per cercare di parlare con qualche appuntato ma ci passavano tutti davanti dicendo che era una questione di un attimo che c'avevano la domandina per il pacco e che superiore di sopra o superiore di sotto c'ho il colloquio c'ho da corre' c'ho da fa e.. hai capito n'hai capito nun poi capí! Allora t'ho proprio rivisto il ciccione nella sua tipica espressione da orsone ferito che cominciava a sbuffare andando avanti e indietro smadonnando come un addannato. Poi a un certo punto ti va a sbattere contro un colombiano translatino che muovendo le lunghe ciglia gli allunga la mano pittata di smalto rosso e gli fa: "ola chico que me dona una cigaretta?". Sul puttanaeva in dialetto lombardo mi sono svegliato e mi sono messo a pensare se ho fatto la scelta giusta a restare qua al G8 invece d'andare al Penale ma mi hanno detto che lí è anche peggio. Pieno di pentiti e pedofili e mostri vari tutti insieme appassionatamente. Il fatto è che ogni posto ha le magagne sue. Quando t'ho rivisto Gambatesa all'infermeria del carcere la prima cosa che mi ha detto è stata che non era piú la situazione d'una volta. D'altra parte a me tanto per non sbagliare hanno dato l'art. 4 bis e mi pare tanto una bella infamata visto che il mio reato è del 78. Ma che dirti? So' un caso anomalo io. Di piú. L'anomalia ce l'ho nel sangue. E ogni volta che sui giornali ci scappa il solito dibattito estivo sull'anomalia degli anni settanta me lo sento tutto addosso. Anomalo il Pci, anomali i movimenti e la loro durata, anomale le bierre e atipica tutta "˜sta situazione italiana dove ogni cosa passa senza mai avvenire. Ecco io dentro tutta la caciara rimasta in ereditá dagli anni settanta sono l'anomalia piú vera. Il mio anno di militanza brigatista è un'aporia totale. Soprattutto dal punto di vista delle bierre. Non ci siamo mai capiti. C'ho condiviso la scelta piú estrema ma glielo dicevo: Io finiró pure questo percorso, peró sia chiaro che con voi non intraprenderó piú nessun altro viaggio. Dentro quella liturgia da terza internazionale c'azzeccavo poco. Una volta un giornalista m'ha pure chiesto se io ero stato comunista ed io risposi che mio padre era stato comunista, forse il Pci era stato comunista e cosí pure le Brigate rosse. Forse io sono stato un ribelle, uno che la rivoluzione l'ha cercata per conto suo, ma sento d'essere stato un'altra cosa. Oggi comunque sono una stranezza temporale e pure amministrativa. Tutto torna. L'altro giorno ne ho pure parlato con una vicedirettrice giovane carina e apparentemente cosí disponibile. Ho sfoderato il mio migliore accento e forte del fascino brizzolato tenebroso mi sono fatto avanti. Dopo appena tre minuti la tizia mi dice che correvo troppo. Allora gli racconto l'aneddoto di Socrate che era seduto all'ombra di un albero quando un viandante l'avvicina e gli chiede quanta strada manchi per Atene ma il maestro tentenna e dopo un po' conclude che non poteva rispondergli perché ignorava la sua andatura. La tipa invece ne ignorava un sacco di piú visto che mi rimane lí muta con gli occhi a mezz'asta e poi mi gira i tacchi e mi molla lá come un coglione sul corridoio... Vabbè chiudo dicendoti che per ora spero di avere una cella singola e di trovare come far passare questo tempo morto. E sta tranquillo perché Un abbraccio forte. Germano[1].
Ps: Se becchi Riccio montagli una bicicletta.. digli pure che non è il caso che mi scriva perchè...
Quando esci dall'ultima fermata della metro quel carcere moderno non lo vedi ma te lo senti subito addosso. Donne zingare dalle gonne lunghe a mongolfiera svicolano sulle scalette e si buttano per il parco Kolbe. Un campo di calcio dedicato al prete polacco ucciso ad Auschwitz cattura il sole della giornata e riscalda l'allenamento d'una squadra di II categoria. Sui sentieri del parco donne frettolose trascinano carrelletti della spesa ingolfati di contenitori di plastica e biancheria stirata. Non è difficile immaginarne la destinazione. Sala colloqui, ufficio pacchi e metal detector con perquisa, di uno qualsiasi dei quattro Istituti di Pena targati Rebibbia. E' l'area penale piú grande d'Italia e ha preso nome, forse, da quella torre che si sgama tozza a via Galbani e che, tanto per cambiare, qualcuno t'aveva piantata lí a guardia delle terre dei baroni.
La borgata una volta era battezzata Ponte Mammolo. Una specie di largo arco di marmo travertino piazzato sull'Aniene dai tempi dei romani, sbaraccato dai vandali, baccagliato dai nobili feudatari, distrutto dai francesi antigaribaldini e ritirato su a dispetto, dopo i giorni della breccia, quando ancora non s'era calmata la nuvolaccia dei calcinacci smossi per le cannonate a Porta Pia. Con quel nome mammolo, da buffo gnomo, che sapeva tanto di fatica e sgobbo in miniera, qualcuno pensó pure, negli anni 30, di piazzargli attorno fabbriche di varechina e d'acido muriatico, casermoni con operai accatenati al ciclo chimico dei solventi della soda Solvay. L'acqua del fiume scioglieva il sale, s'arricchiva di cloro e scorie, e restituiva in giro vapori verdoro che tanfavano di brutto l'aria. Crescere da quelle parti non doveva essere un'allegria. Neppure a guerra finita quando la borgata s'allargava abusiva e Pasolini ci capitó in fuga da Casarsa. Visti da via Tagliere i suoi giorni passati a scrivere pagine di Ragazzi di Vita erano per lui, giorni persi in una luce di necessitá , e quel domicilio coatto il poeta lo ricorda come un esilio, l'esilio di Rebibbia. Allora il carcere era solo un disegno schizzato in qualche studio d'architetti. Poi col tempo è diventato un sacco di cose e un concentrato di angosce, sfide e questioni irrisolte. A chi l'ha realizzato non sono mai mancati smoccoli e mortacci d'ogni tipo. Porta male, sosteneva mia madre, porta male costruire certi posti e di sicuro quello che ha messo su Regina Coeli t'ha fatto la brutta fine e te lo do per certo anche quello del Palazzaccio è andato sotto al fiume. Non è vero. E' andata sempre peggio a chi la galera se l'è ciancicata dentro. Ma mia madre, di tante leggende popolari, ne faceva vangelo e poi a corto di prove, alzando gli occhi al cielo, chiudeva in amen ogni racconto: che voi fa' figlio, c'è sempre bonissima giustizia. Per Rebibbia comunque, quando certe maledizioni presero la via armata, ci fu chi mise in piedi un'esecuzione alla primalinea, di quelle alla bruttoddio, con irruzione, blocco dei presenti e vittima fatta inginocchiare giusto il tempo di un processo proletario da chiudere con la nuca spappolata da una trentotto. Il fucilato, quella volta, riuscí a salvarsi. Non era l'ora sua. La palla del blackout gli rimbalzó sulla calotta per andare a nascondersi tra l'occipitale e chissá quale depressione scamuffa dell'emisfero cranico. Fatto stá comunque che l'ha raccontata e qualche mese dopo giá stava ai confronti dietro un vetro a braccetto col magistrato. Riconosceva tutti. Anche quelli che non c'erano. Soprattutto quelli che non c'entravano un piffero. Ma, d'altra parte, c'era pure da capirlo. Pure io. Con una trentotto nella testa e quell'odore nitrico della polvere da sparo che ti intossica la memoria e ti brucia l'anima. Pure io t'avrei riconosciuto tizio e caio. Manco il giudice t'avrei salvato.
Carlito e Juan invece per andarsene dovettero cambiare continente. Erano due indios andini che ne avevano combinate di cotte e di crude tra l'Argentina e l'Ecuador. Passavano le ore d'aria a pistare intorno al campo del G12. Centoventi minuti tutti tirati, due volte al giorno, fino a che l'acido lattico fracicava i muscoli e la vista si appannava a furia di correre in tondo nel recinto finendo come in trance dopo aver spippettato chissá cosa. Vamos Sivori vamos a ganar
Allons.. vite allons! La scappata aerea dal Giudiziario, la bella alla francese, è stata cosí l'unica a fare storia. Merito d'una batteria transalpina chiamata les Postiches de Belleville. La banda per buona fetta degli anni ottanta gli aveva preso brutto a svuotare banche nei sobborghi di Parigi, a Neuilly Passy o posti del genere, scavallando banconi, agendo da imparruccati, svoltando grisbí ma sempre ben vestiti in loden e cachemire griffés, chapeaux british e baffi finti. Ogni volta avevano schivato la chiamata al gabbio fintanto che c'era scappata la sceriffata alla mucchio selvaggio, con morti feriti e sbandati varii, al Crédit Lyonnais di Paris XVI. La sventura per i resti del gruppo s'era poi completata in Italia allorchè a un controllo di caramba di paese un paio di loro s'erano fatti svagare con i documenti taroccati. Erano finiti dritti dritti au ballon e ci doveva pensare un mec calato giú da Marsiglia, scampato pure alle cronache dell'esecuzione di Jacques Mesrine, a tirarli fuori. Il tipo t'aveva sequestrato un elicottero al San Camillo e con tanto di stemma rossocrociato aveva poi costretto il pilota a svolazzare nel cielo di Roma. Aveva ronzato sui resti marciti del Ferrobedó e sulla Garbatella di Tommasino e Irene. Aveva svicolato alto per
testo di Claudio D'Aguanno pubblicato su Loop n1 – maggio 2009
[1] Germano Maccari meglio conosciuto come l'Ing. Altobelli, il "quarto uomo" della base di via Montalcini dove venne rinchiuso e poi ucciso l'on. Aldo Moro. Arrestato nel 1993 per questo reato Germano verrá condannato tre anni dopo alla pena dell'ergastolo poi ridotta, nei gradi successivi, a 23 anni. Nella notte del 25 agosto 2001 Maccari, rinchiuso a Rebibbia, viene colpito da aneurisma celebrale e muore in cella.
di CLAUDIO D'AGUANNO
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